
Era prevedibile che Il Mostro, la nuova miniserie Netflix diretta da Stefano Sollima (l’autore delle serie Romanzo Criminale e Gomorra), avrebbe suscitato discussioni. In quattro episodi, la serie riporta al centro dell’attenzione il misterioso caso del Mostro di Firenze, responsabile tra il 1968 e il 1985 dell’uccisione di 14 persone — anche se si sospetta che le vittime possano essere state 16.

Apprezzata dal pubblico per la narrazione asciutta e la regia tesa, al punto che è inamovibile dalla vetta della Top 10 di Netflix, la produzione ha comunque diviso gli spettatori, con molte critiche rivolte a scelte narrative precise. Vediamo assieme cosa sta succedendo.
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Le principali critiche alla miniserie Netflix
Il primo punto contestato riguarda la brevità della serie: solo quattro episodi per raccontare una vicenda giudiziaria complessa, costellata di ipotesi, depistaggi e piste contraddittorie. Molti si aspettavano un racconto più ampio, capace di toccare tutte le direzioni seguite dagli inquirenti nel corso dei decenni. Sollima, invece, concentra la narrazione sulla cosiddetta “Pista Sarda”, che coinvolge figure come Stefano Mele, marito di una delle prime vittime, e i fratelli Salvatore e Francesco Vinci, originari della Sardegna ma residenti in Toscana.

Una scelta che, pur garantendo coerenza e compattezza narrativa, esclude inevitabilmente altri sviluppi e personaggi centrali nel caso. Diversi spettatori hanno lamentato l’assenza di riferimenti ad altre teorie e sospettati, percependo la serie come parziale e frammentaria. Tra i commenti piĂą ricorrenti, uno riassume bene il sentimento diffuso: “Sì, ma non potete lasciarci così, senza parlare dei compagni di merende.”, ovvero il gruppo di guardoni e pervertiti in cui rientrava Pietro Pacciani, il mostro “ufficiale”. Secondo il portale Cinefilos, la violenza rappresentata e la mancanza di una veritĂ  esplicita potrebbero dividere il pubblico: chi cerca risposte, forse, dovrĂ  accettare che la serie dĂ  piĂą domande che soluzioni.
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La pista sarda
Negli ultimi decenni, l’attenzione si è focalizzata sulla cosiddetta “pista sarda”, con sospetti che cadevano sui fratelli Vinci, calati dall’entroterra sardo nel 1982. La svolta piĂą recente – notizia filtrata solo il 20 luglio scorso – ha riguardato l’analisi del DNA sul piccolo Natalino, unico sopravvissuto al tragico duplice omicidio del 1968: esami genetici hanno definitivamente accertato che il padre biologico non è Stefano Mele, inizialmente condannato per quel delitto, bensì Giovanni Vinci, fratello di Francesco e Salvatore, mai indagato prima d’ora.

Il clima di paura e sospetto: una scelta stilistica
Sollima sceglie di non proporre un nuovo colpevole, ma di raccontare il clima di paura e sospetto che attraversò l’Italia di quegli anni. La storia si sviluppa attorno a Silvia Della Monica (interpretata da Liliana Bottone), il magistrato che seguì in prima persona le indagini: unica donna in una squadra di soli uomini, la sua figura diventa simbolo di un lento, ma necessario, cambiamento sociale.

La regia di Sollima costruisce un’atmosfera tesa, opaca e inquieta, dove la linea che separa vittime e carnefici si fa sempre più sottile. Tuttavia, la durata limitata della serie riduce la possibilità di approfondire le molte sfumature del caso, lasciando più di un aspetto appena accennato — o completamente in ombra.

Un mistero senza fine
Il debutto della serie coincide simbolicamente con il decimo anniversario dell’arrivo di Netflix in Italia, e si presenta come un vero evento per appassionati di true crime, thriller psicologici e storie vere che sfidano la memoria collettiva. Come tutti sanno, purtroppo, stiamo parlando di una storia vera: l’incubo che ha segnato l’Italia tra il 1968 e il 1985: otto duplici omicidi, sempre ai danni di giovani coppie appartate nelle campagne attorno a Firenze, tutti compiuti con una Beretta calibro 22. Un serial killer dunque, Un’indagine lunga decenni, piena di depistaggi, colpevoli designati e presunti mostri.

